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“Chi dà la colpa all’Islam aiuta i terroristi”

"Chi dà la colpa all'Islam aiuta i terroristi"

Il terrorismo non ha religione. Se ce l’ha, è rubata. «Dirottata», sostiene. Mohammed Hashas è un ricercatore dell’università Luiss di Roma. Musulmano. Come tanti musulmani, in questo momento, si vede rivolgere la domanda, «Perché? Perché uccidere per vendetta nel nome di Allah? E ora, cosa succederà?». Lui non risponde solo con la sua esperienza di fede. Ma anche da studioso che organizza convegni internazionali sul rapporto fra Stati democratici e Islam. Un rapporto, ribadisce, possibile. Fragile, in questo momento, ma che può diventare forte e stabile. Solo se gli Stati però accetteranno la sfida, e ci metteranno la mano. Senza continuare a lasciare spazio agli integralismi e all’intolleranza.

Prima d’iniziare l’intervista, ripete più volte la parola “tragedia”, cercando il modo di commentare i dodici morti ammazzati ieri a Parigi da un commando di jihadisti. «Siamo vittime», dice: «Noi musulmani insieme ai vignettisti di Charlie Hebdo e ai poliziotti. Questa è una tragedia che riguarda tutti noi, in quanto umani e cittadini». Ora, oltre il dolore, ci sono molti punti da affrontare però, sostiene, molti nodi da sciogliere, affinché il fondamentalismo a cui i tre assassini hanno sacrificato nuove vittime non guadagni terreno, facendosi strada nei cuori di tanti musulmani che vivono in Europa e nel mondo.

«È a rischio la stabilità sociale», ammette: «La risposta che più di ogni altra potrebbe ora nutrire il terrore è proprio l’islamofobia però. L’additare la colpa all’Islam in quanto religione. L’aumentare la paura del diverso. L’unica forza che può fermare la violenza invece è nelle istituzioni». Quali? Hashas ha le idee chiare a riguardo: «Gli stati europei non vogliono spesso riconoscere la minoranza musulmana dei loro cittadini. Gli spazi istituzionali mancano quasi dappertutto», spiega: «Questo fa sì che i musulmani debbano continuamente trovare risorse spirituali e materiali nei paesi arabi, a cui restano legati. E debbano limitarsi a pregare negli scantinati, a studiare online, ad arrangiarsi per i luoghi d’incontro e preghiera come possono. Questi spazi obbligatoriamente marginalizzati non aiutano l’integrazione però. Anzi, sono il terreno perfetto per i fondamentalismi».

La risposta, allora, sostiene il ricercatore, dovrebbe essere quella opposta: «Dopo l’attentato le campagne contro l’Islam riprenderanno voga», scuote la testa: «Ricominceranno le proteste contro le aperture di moschee. Ma questo è più che controproducente. Se avessimo luoghi riconosciuti dalle istituzioni, questi sarebbero anche più controllati. Più accettati. E potrebbero aspirare a un riconoscimento maggiore nelle comunità».

Il problema si pone, continua Hashas, anche nelle prigioni, dove molti giovani lasciano germogliare le frange più estreme della loro fede, com’è successo per uno degli attentatori che hanno guidato il massacro a Charlie Hebdo. «In Gran Bretagna il problema è stato affrontato, con un piano per aiutare, anche finanziariamente, gli imam che prestano servizio nelle carceri. È un diritto dei detenuti. Che va rispettato. E un modo per far capire loro che sono considerati cittadini come gli altri. Non scarti esposti alla rabbia dell’ingiustizia sociale».

Solo così, sostiene Hashas, si potrà fermare l’odio. «Il discorso del presidente francese Hollande mi ha colpito molto positivamente», dice: «Ha fatto più volte appello all’unità. In questo momento essere uniti, fra cittadini di ogni fede, ideologia o credo, contro i terroristi di Al Qaeda e di Isis, è l’unica arma che abbiamo per isolarli e sconfiggerli. Tutti noi dovremmo aprire libri di storia e teologia, se vogliamo far parte di nazioni libere e multiculturali. E l’Islam europeo è uno dei percorsi potenzialmente interessanti per un futuro comune».

C’è però anche un tema che riguarda le comunità islamiche stesse. Da molte parti si fa appello ancora una volta a una presa di posizione, del mondo musulmano moderato, contro le violenze: «Ma questa condanna c’è già», dice lui: «L’hanno espressa ancora una volta leader islamici di tutto il mondo. Continuiamo a farlo. Spesso senza il dovuto riscontro dei media, che invece danno ampio spazio a pulsioni e paure islamofobe». «Quello che manca è altro», continua: «Servirebbe un dialogo più aperto. In cui ci siano le autorità islamiche ma anche quelle istituzionali, allo stesso tavolo».

Ci sono però delle barriere, difficili da abbattere, che restano quali terreni su cui si può scivolare anche conversando con un ricercatore. «Quelle vignette ferivano anche me», ammette Hashas parlando della satira graffiante e “irresponsabile”, come si auto-definisce, di Charlie Hebdo: «Di sicuro su questi temi la sensibilità dei musulmani è alta. Le provocazioni possono essere percepite in maniera diretta e soprattutto ora, esplodere. Nulla giustifica la violenza ma è vero che in un momento così instabile una riflessione forse andrebbe fatta».

Per censurare? Per reprimere quelle voci sì irrispettose forse, ma proprio anche per questo libere? «Non dico questo», risponde Mohammed Hashas: «Dico solo che ora siamo in un momento in cui questa sensibilità è esacerbata. E serve forse una maggiore attenzione. Anche il mondo islamico cambierà, com’è cambiato quello cristiano. Ma oggi è considerata ancora una blasfemia inaccettabile la ridicolizzazione del profeta». 

 

“Chi dà la colpa all’Islam aiuta i terroristi”, L’espresso (La Republica), 09 gennaio 2015.

Scholar of Islam, contemporary Arab and Islamic philosophy and theology, Islam in Europe, European Islamic thought, Moroccan thought, and religion and politics in the Arab World.

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